Colera

 

L’epidemia di colera del 1835 risparmia Castelluccio

Lontano dal paese qualche castellucciano si era imbattuto nel colera e ci aveva rimesso la pelle.

I primi morti di colera di cui abbiamo notizia furono due fratelli, Giuseppe e Benedetto Tuccini, figli del defunto Giuseppe;  morirono il primo a Roma e il secondo ad Albano, e la notizia fu riferita per lettera al parroco di Castelluccio che,  nel settembre 1837, provvide ad annotarla nel registro. Forse i due erano da quelle parti per caso, o forse ci abitavano stagionalmente. Fatto sta che non rividero Castelluccio, dove il colera sembrava non potesse mai arrivare.

Anversa 1833

Avviso del 6 agosto 1833 dalla Corona Reale svedese, che introduce restrizioni a causa dell’epidemia di colera in Anversa

E poi, che cos’era questa nuova malattia? A quell’epoca il colera era una novità. Sino alla fine del Settecento il colera non esisteva, e quando arrivò proveniente dal subcontinente indiano il suo impatto fu fortissimo perché risvegliò le antiche paure della peste e delle altre malattie che avevano decimato l’Europa a più riprese nei secoli. Non sapendo di che cosa si trattasse, si diffondevano le voci più strane, i rimedi più improbabili; e i ciarlatani andavano forte.

Tuttavia, se anche non si sapeva che cosa realmente fosse (o proprio per questa ragione), la paura si diffuse dappertutto. Le autorità si accorsero che il colera stava arrivando nel 1817, quando questa malattia cominciò a uscire dai suoi confini originari; e in tutto il mondo occidentale si tentò di arginare il pericolo emanando disposizioni di legge atte a prevenire il contagio. Ma è difficile fermare un nemico di cui non si conosce la natura.

Così nel 1835 si riscontrarono i primi casi in Italia. Da qui lo scoppio dell’epidemia, che durò fino al 1837 e portò via i due fratelli castellucciani di cui abbiamo detto.

Planimetria del penitenziario di Brest, disegnato da un medico che aveva curato un’epidemia di colera nel 1849, pubblicati nel suo rapporto sull’epidemia. Memoria sul colera-morbus asiatico: descrizione del penitenziario di Brest (Licenza Creative Commons Wikipedia)

A Castel Monte Precino (l’antico nome di Castelluccio) dovevano sentirsi in una botte di ferro. Una popolazione di quasi cinquecento persone (questo, più o meno, il numero di residenti durante l’Ottocento e anche nella prima metà del secolo successivo), isolata in un villaggio compatto e difficilmente raggiungibile, dal clima freddo e secco. Nessun fiume, nessun pescatore, nessuna tentazione di mangiare cozze crude. L’igiene non doveva essere granché, ma l’acqua scaturiva, come oggi, direttamente dalla roccia calcarea di una montagna deserta; e i liquami non ristagnavano sia perché Castelluccio è tutta salite e discese sia perché il terreno carsico fa sparire ogni traccia di umidità entro pochi minuti. D’altronde nessuno era mai morto a causa del letame delle mucche o degli escrementi delle pecore.

Infine, scarso o nullo traffico di forestieri, la specie vivente più pericolosa in caso di epidemie.

Quelle di Castelluccio erano condizioni avverse alla diffusione del colera. Anche lassù era arrivata la notizia che quella nuova malattia; ma se qualcuno moriva, accadeva perché l’aveva contratta in pianura dove era morto ed era stato sepolto. Il “cholera morbus” era una minaccia lontana. E infatti l’epidemia del 1835-37 non arrivò a Castelluccio.

Cholera-morbus-pittura

Constantino Pedro Chaves da Motta, Cólera Morbus, Museu Histórico de Cametá, Brasile, olio su tela, fra il 1856 e il 1858, cm. 157 × 335

Il colera

Era (ed è) una malattia prevalentemente cittadina, che si sviluppa in ambienti sporchi e trova nell’acqua inquinata il suo migliore veicolo di diffusione. A questo bisogna aggiungere che il colera si  diffonde con molta più facilità in climi caldi e umidi, nelle comunità di pescatori, lungo le coste dei fiumi e dei mari, nelle città piene di rifiuti, nelle bidonville, in mezzo alla sporcizia e alla miseria.

L’asiatico morbo o cholera morbus, come sarebbe stato chiamato il colera anche dal parroco di Castelluccio, è una malattia terribile non solo per chi la contrae ma anche per chi gli sta vicino. Il vibrione attacca l’intestino e provoca diarrea e vomito fino allo sfinimento e, spesso, alla morte. Anche oggi, con un numero di vittime che, a livello mondiale, si aggira sulle 200.00, il 94% delle quali in Africa.

Diffusione del colera (2004)

Diffusione del colera (2004 – licenza Creative Commons)

Nella nostra coscienza non esiste più il colera come pericolo nazionale, eppure l’ultima epidemia arrivò in Italia, a sorpresa, nel 1973: in Campania (3 morti a Napoli), in Puglia e in Sardegna. Pare che la colpa fosse delle cozze. Mentre la gente si ammalava e le autorità sanitarie raccomandavano di non mangiare frutti di mare crudi, il solito imbecille, che piace molto alle televisioni, dava pubblico spettacolo sul piccolo schermo trangugiando cozze crude. Dimostrazione di come il cervello delle cozze, per quanto appetitoso, non sia il più piccolo del mondo animale.

Questa stringata presentazione del nemico si ferma qui. Potete trovare dei link in fondo all’articolo per saperne qualcosa di più. A questo punto a noi interessa descrivere che cosa avvenne a Castelluccio quando, contro ogni aspettativa, il vibrione del colera, annidato silenziosamente in qualche ospite indesiderato o in qualche castellucciano ritornato da fuori, riuscì a superare uno dei tre valichi e portò morte e scompiglio in mezzo a quella piccola comunità. Era il 1855, e già da un anno una nuova epidemia di colera imperversava in Italia.

Vibrione-del-colera

Il vibrione del colera

L’epidemia del 1854-55

Infatti l’ “asiatico morbo” era riapparso in tutta la sua virulenza nel 1854, fra la prima e la seconda guerra d’indipendenza, quando ancora l’Italia non era stata fatta, e all’inizio sembrò risparmiare di nuovo Castelluccio.

Ma la tregua durò fino al 25 agosto 1855, quando anche a Castelluccio fu seppellito il primo morto di colera. Era Costantino Piccolomini, 70 anni circa; il prete riuscì appena a confessarlo, dopo di che, in preda a un attacco di vomito, Costantino morì improvvisamente. Dietro le poche righe scritte dal parroco don Pasquale Bragelli si sente un certo stupore per questa prima morte causata da una malattia che si pensava avrebbe risparmiato il paese.

Il giorno dopo morì Angela Rosa Montani moglie di Lazzaro Brandimarte; aveva cinquant’anni e anche lei era stata colpita dal colera. L’epidemia era arrivata.

Malgrado ciò, non era ancora chiaro che cosa fosse il colera, come si diffondesse e quali precauzioni si dovessero prendere. Quindi Costantino e Rosa furono sepolti come si era sempre fatto fino ad allora, sotto il pavimento della Chiesa parrocchiale di S.Maria Assunta, che doveva essere molto affollato.

Il Colle del Pozzo Sprofondato

Tuttavia scattò l’allarme e le autorità decretarono che le prossime sepolture avvenissero lontano dal paese, nel nuovo cimitero individuato in un campo in fondo alla collina di Castelluccio verso Visso, al confine con le Marche. Era il “colle del pozzo sprofondato“, che da quel momento venne chiamato “Cimitero Nuovo” e che, molto tempo dopo, sostituito dall’attuale, sarebbe stato chiamato “Campusantu viécchiu“. Oggi è ancora visibile, a poco più di un chilometro dal paese, al limite del cippo confinario di epoca cinquecentesca che delimita Marche e Umbria. Il “pozzo sprofondato” doveva essere una delle tipiche doline che si trovano numerose anche attorno al colle, sul lato che guarda verso nord. Lì, quando le autorità si accorsero che il colera era arrivato, disposero che venissero seppelliti i morti.

Camposanto-vecchio

Istantanea da Google Earth con l’indicazione del Camposanto Vecchio

Dopo che per secoli i castellucciani avevano trovato riposo nelle due chiese del paese, il nuovo cimitero fu subito inaugurato tre giorni dopo, il 31 agosto 1855, quando vi furono portati i primi 3 castellucciani (due donne e un uomo) morti di colera.

Angela e suo figlio

A Castelluccio l’epidemia durò circa un mese e mezzo, dal 28 agosto al 9 ottobre 1855, e portò via con sé 17 castellucciani (10 uomini e 7 donne); a parte 2 bambini e un ragazzo, si trattava di adulti.

Il caso che più impressionò la popolazione e che vi vogliamo raccontare nella sua drammaticità, riguarda una giovanissima sposa (aveva 18 anni) che stava per diventare mamma. Si chiamava Angela Tuccini ed era moglie di Angelo Procacci, originario di Norcia, che al momento (forse per sfuggire al colera) dimorava con la giovane moglie presso la famiglia del suocero a Castelluccio, dove faceva “l’artigiano calzolaio“.

Angela era incinta, quasi alla fine della gestazione, e aveva tutta la vita davanti, ma quelle attenzioni non riuscirono a salvarla; morì in maniera terribile, suscitando la pietà di tutti. Traduciamo le parole del sacerdote che per lei scrisse il più bel necrologio del Liber defunctorum:

morì “per un atrocissimo e orribile colera che l’aveva colpita all’improvviso“; non vi fu tempo per le normali pratiche religiose perché “la crudeltà della malattia non lasciò spazio alcuno.

A quel punto tentarono di salvare il bambino, prima cercando di estrarlo dall’utero e poi tentando il parto cesareo, ma non ci fu niente da fare. Così racconta il sacerdote:

In base alle disposizioni dell’autorità civile il suo corpo fu portato al cimitero nuovo insieme al feto non estratto dalle sue viscere, in quanto a causa della mancanza della professione medica non ebbe successo l’operazione di estrazione (del feto) e di taglio (cesareo).”

Il riferimento alla professione medica è equivoco e si può intendere in due modi. Questo il testo latino: “quia ob phisici professionis defectum minime potuit avulsionis et secationis opus effici”. La nostra traduzione sopra riportata parte dal concetto che il medico non ci fosse e che qualcun altro (ad esempio la levatrice) abbia provato a far nascere in qualche modo il bambino, senza successo e con enormi sofferenze aggiuntive per la mamma. Ma, al di là delle nostre intenzioni di aggiustare il passato, è molto probabile che quel “defectum” non significhi “mancanza” ma “manchevolezza, imperizia“, e che il medico del tempo, seppur presente, non fosse all’altezza dell’operazione. Un’operazione che, in quelle condizioni, sarebbe stata molto ardua anche in una clinica ostetrica dei tempi attuali. Di questi interventi dell’ultimo momento, fatti a Castelluccio in situazioni precarie, quasi disperate, lontano da ogni ospedale e senza modo e tempo di arrivarci, abbiamo avuto noi stessi testimonianza quasi diretta alcuni decenni fa.

Angela-Tuccini

Resurrectionem expectatura

Così Angela morì insieme a suo figlio; e il sacerdote, che nel descrivere quella morte doveva essere angosciato, volle promettere ad Angela un’immediata pace e le dedicò un’ultima riga, apparentemente rituale ma intensa e commossa; parole che, messe così, non erano mai apparse né lo sarebbero state mai più nel Libro dei defunti:

… e lì (nel cimitero nuovo) riposa nella pace di Cristo, mentre attende la resurrezione della carne” (ibique in pace Christi requiescit carnis resurrectionem expectatura).

 

A.Pongetti, Il colera nell’Italia dell’Ottocento
L’epidemia di colera del 1836-37
Il Colera su Wikipedia
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2 risposte a Colera

  1. Simone scrive:

    Volevo fare i miei complimeti per la redazione del sito. Articoli ricchi e ben documentati.
    Saluti

  2. AnnaRita Cappelli scrive:

    I tuoi articoli sono sempre interessanti ed avvincenti, complimenti!