Il mastro maniscalco

Il mastro maniscalco di Castelluccio

di Giuseppe Iacorossi

Mastro Armenio fu l’ultimo mastro maniscalco di Castelluccio di Norcia, l’ultimo cultore di quella che fu una nobile arte tramandata per millenni nel nostro borgo montano. Per i ragazzi della mia generazione che frequentavano, negli ultimi anni Sessanta del secolo scorso, la fucina di Mastro Armenio lui era il Dio del fuoco, il signore del ferro, il narratore di mille storie,  il mago di tanti incantesimi.

Ho ascoltato senza mai fiatare tante storie d’avventure raccontate con bravura da Mastro Armenio che al confronto quelle d’Indiana Jones sembrano storielle.

 

Il fabbro che raccontava storie

Amava raccontare la leggenda delle Fate del Vettore. Man mano che diventavamo grandicelli,  la descrizione della fata Alcina si arricchiva di particolari anatomici che superavano le curve di Jessica Rabbit; quando Armenio descriveva la sua bellezza e le sue forme, i suoi occhi brillavano e il martello smetteva di battere.

Erano storie di incontri con stregoni, streghe, alchimisti e negromanti, racconti ravvicinati con marziani (la storia degli incontri con i marziani è stata pubblicata da un giornale di Ufologia nel 1954).

Quando compii quattordici anni ( nel mondo rurale e montanaro a quest’età si veniva considerati maggiorenni, uomini che dovevano sapere le cose della vita) mi confidò che un giorno si introdusse nella grotta delle Fate e dopo molte fatiche, prove di coraggio e combattimenti disumani con mostri terribili e draghi che sprigionavano fuoco, raggiunse il mondo incantato della Regina delle Fate. Essa si innamorò di lui, che insieme a lei e alle sue ancelle trascorse molti giorni di piacere, prima di tornare nel mondo degli uomini.

Ho passato giornate intere, specialmente d’inverno, a spingere il mantice della forgia senza mai stancarmi mentre vedevo il ferro rovente prendere forma sotto i colpi di Armenio.

Ascoltavo le sue storie raccontate con voce calma e in armonia con i colpi di mazza e il suono morbido del martello sull’incudine, quasi che le parole si fondessero tutt’uno con i colpi e i suoni della fucina.

Quando questi racconti si facevano tenebrosi e motivo di paura per noi giovanissimi, egli intensificava i colpi di mazza sul ferro incandescente che teneva poggiato sull’incudine provocando una pioggia di stelle filanti in tutti gli angoli della bottega. Contemporaneamente cambiava il tono della voce che da calma diventava cupa e roca facendoci accapponare la pelle e trasalire il cuore in gola.

 

Da Castelluccio all’Africa

Immancabilmente i suoi racconti si spostavano all’Africa dove da militare aveva combattuto, con l’ardore dei vent’anni, una guerra che lo aveva visto eroe di mille battaglie. Noi ragazzi le conoscevamo a memoria anche nei minimi particolari, sapevamo i loro nomi esotici come solo quelli Afroarabi sanno essere. Derna, Tobruk, Sidi El Barrani, Marza Matruk, Sollum; dove aveva combattuto la sua ultima battaglia prima di cadere prigioniero dell’odiato nemico inglese.

Ci portava con le sue parole nei paesi che aveva visto come prigioniero di guerra; nei deserti della Libia, tra le piramidi dell’antico Egitto, alla Mecca dove era sepolto il grande profeta Maometto, in Sudan dove vi era un grande fiume la cui larghezza superava il Pian Grande, in Kenia dove le spiagge erano bianche e senza fine e le palme si specchiavano nell’acqua color smeraldo; ci conduceva nel Transvaal, il paese dalle mille miniere d’oro e di diamanti, nell’India con le sue vacche sacre e dove gli elefanti venivano usati per il lavoro dei campi e per il trasporto delle persone.

Ci induceva a fantasticare educandoci all’amore per l’avventura, per viaggi oltre ogni confine, quasi alla ricerca di un paradiso terrestre, un di là che noi sapevamo non esistere ma nel quale fingevamo di credere sognando.

Sono state queste storie che hanno indotto molti di noi, me compreso, a partire, scendendo a valle, tanto che quando sono arrivato in Africa la prima volta mi sembrava di esserci già stato.

 

L’ingegno di Armenio

Armenio sapeva fare tante cose: dominava il fuoco, modellava il ferro per chiodare gli zoccoli dei cavalli, asini, muli, e buoi da lavoro, preparava infusi di belladonna o antimonio per chi ne aveva bisogno,  estraeva denti usando le mani, praticava salassi. E mentre operava raccontava ai “pazienti”,  per alleviare loro i dolori,  strabilianti storie di belle donne.

Alle vigilie delle grandi feste passava per le case a radere le barbe e a tagliare i capelli agli infermi prima che il sacerdote portasse loro la comunione. In una parola ci dava una grande  e costante lezione di vita.

Poi Mastro Armenio è partito per il suo viaggio definitivo portando con sé i segreti del suo mestiere di maniscalco; e con lui se ne è andata un’altra parte dell’identità di Castelluccio. Spero che presto la Proloco e la Comunanza Agraria di Castelluccio di Norcia istituiscano un Museo per esporre e conservare tutti gli attrezzi che hanno rappresentato fino ad oggi l’identita del nostro Appennino Montano: sarebbe bello che un giorno anche gli utensili che Armenio si era costruito per fare il suo lavoro facessero bella mostra del suo ingegno.

E’ necessario far conoscere ai nostri figli e nipoti come un tempo, in un luogo isolato dal resto del mondo, vi erano persone che sapevano fare e inventare tutto.

di Giuseppe Iacorossi

G.Iacorossi – [email protected]

18 settembre 2012

 

Una risposta a Il mastro maniscalco

  1. claudia ricci scrive:

    Grazie Giuseppe.
    Hai saputo riportare alla mia mente una figura la cui genialità e maestria mi ha sempre colpita.
    Ricordo i vasi dei fiori ed ancor meglio i piatti di ceramica “aggiustati” con il suo intevento sapiente. Mi sono sempre chiesta come il ferro ed martello potessero aggiustare la fragilità delle stoviglie. La curiosità che mi suscitava quel filo di ferro che teneva insieme parti improbabili di recipienti da portata che, invece, restavano saldamente unite!
    Mio padre (romano da generazioni e dunque cittadino estraneo a quell’artigiananto che già negli anni ’70 a Roma era pressoché scomparso), restava affascinato dalla musicalità prodotta dal tocco del martello sul pezzo da lavorare e sull’incudine. Proprio quel ritmo, speigava Armenio, gli consentiva di essere preciso e non farsi male.
    Sono, dunque, d’accordo con l’iniziativa di un museo civico a Castelluccio, sia per conservare la memoria storica di questi mestieri (che in un ambiente isolato ed impervio come Castelluccio erano caratterizzati da una tipicità ancora più pregnante), sia perché le persone che li hanno rappresentati, sono il vero patrimonio di Castelluccio. Il patrimonio umano.